Sunday 31 January 2016

PIO, PIO. PIO ... conosciamo meglio i nostri polli! di Roberto Fineschi


PIO, PIO. PIO ...
conosciamo meglio i nostri polli!
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Roberto Fineschi




1. A chi è nato in Toscana il nome di Pio IX suscita inevitabilmente un risolino compiaciuto. Eccetto le bestemmie di cui in questa sede non è questione, i nostri nonni nelle campagne avevano, infatti, due imprecazioni privilegiate: la celebre “Maremma maiala” (od anche “Porca Maremma”) e poi l’altrettanto diffusa “Porco pionono”. Da piccolo mi chiedevo che cosa diavolo fosse questo “pionono”, ma nessuno sapeva spiegarmene il significato; si trattava semplicemente di un’esclamazione divenuta proverbiale: mia zia mi rispondeva che lo diceva suo padre e così via. Il suono “pionono” era così tradizionalmente adibito ad usi che immediatamente non sembrerebbero adeguati alla “santità” (ad onor del vero per ora solo “beatità”) di chi designano.
Proprio in questi giorni il solito risolino compiaciuto stava accompagnando un servizio televisivo in cui si nominava il suddetto; una certa perplessità mi ha colto però quando ho capito che lo si menzionava a proposito dell’inizio del processo di beatificazione (accompagnato da quello dell’altro pontefice Giovanni XXIII). Questo è forse un fatto che merita di essere commentato.
Il Vaticano ha sempre avuto una sorta di pudore nel fare santi o beati dei papi vissuti nel secondo millennio della propria storia, come a riconoscere, almeno implicitamente, che forse c’era più da turarsi il naso che da venerare. Così fra i molti (126) che sono saliti al soglio pontificio in questo periodo si contano solamente 5 nomi di santi: Leone IX (1049-1054), Gregorio VII (1073-1085), Celestino V (1294), Pio V (1566-1572) e Pio X (1903-1914). A beati stiamo meglio, ma non di molto, ne abbiamo infatti 8: Vittore III (1086-1087), Urbano II (1088-1099), Eugenio III (1145-1153), Gregorio X (1271-1276), Innocenzo V (1276), Benedetto XI (1303-1304), Urbano V (1362-1370) e Innocenzo XI (1676-1689). Adesso questi diventeranno probabilmente 10 grazie alle due new entries di Pio IX (1846-1878) e Giovanni XXIII (1958-1963).
Leggendo le date si nota che per settecento anni, eccetto Pio V, non sono stati canonizzati papi e, negli ultimi seicento, solo uno, Innocenzo XI, è stato beatificato. La lunga pausa è stata solo recentemente interrotta con S. Pio X che sembra aver aperto una nuova tendenza “contemporaneista” portando all’inizio del processo di beatificazione di altri due papi del nostro tempo (e sembra che anche Pio XII sia ai blocchi di partenza). Ciò può essere indicativo.
Santo, infatti, è colui il cui comportamento è manifestazione della carità di Cristo come tale: “la grazia, unendoci a Cristo con un amore attivo, assicura il carattere soprannaturale dei nostri atti e, di conseguenza, il loro merito davanti a Dio e davanti agli uomini” [Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 2011]. Canonizzare qualcuno significa quindi considerarlo venerabile per quello che ha fatto; i suoi “atti”, (non tutti, solo la sostanza) sono perfettamente conformi al comportamento di Cristo stesso. Il Santo è un esempio da imitare. La scelta di questi papi assume dunque un significato molto particolare; essi hanno scritto ed hanno agito “san­tamente” prendendo posizione su temi tuttora scottanti, sono quindi un modello per il cattolico contemporaneo; il loro pensiero e la loro opera sono considerati dalla Chiesa Cattolica [d’ora in poi CC] di oggi attuali e decisivi.

2. La CC sta intraprendendo un tentativo di penetrazione in grande stile, fatto di spot pubblicitari, bagni di folla, culto della persona (del papa), cd musicali, rimozione dei debiti storici (soprattutto dei motivi per cui tali debiti sono stati contratti) ecc. per riconquistare terreno politico; quali sono però i contenuti proposti? Questa propaganda massiccia e battente assieme alla Caporetto delle forze progressiste e democratiche favoriscono il coinvolgimento popolare a prescindere da essi. [Che per le forze democratiche il crollo del socialismo reale sia stato una Caporetto, al di là dell’accettazione o meno dell’Urss, è un fatto quotidiano, riconosciuto perfino da Bobbio (cfr. l’articolo di A. Mazzone, in la Contraddizione, no.73)].
Tutto questo permette fra le altre cose che si possa procedere alla beatificazione di Pio IX senza che l’opi­nione pubblica batta ciglio, senza che i mezzi di informazione principali ricordino le doti particolari del benemerito. La strategia è evidente: insieme a Giovanni XXIII, unico papa che gode di una sincera devozione popolare, si fa passare quasi sottobanco il nemico giurato della Unità nazionale, del Risorgimento, dell’Italia: Pio IX. Bisogna però stare attenti a non accettare un patriottico anticlericalismo senza contenuto (fondamentalmente di destra). Questa è, fra l’altro, l’idea che cercava di suggerire il solito asservito, lacchè, cronista del tg1; egli, dovendo dire qualcosa di Pio IX, ha affermato che era famoso per l’opposizione all’unità nazionale, ma che oggi le polemiche sono passate e “è restata solo la santità” (sic!). Ci sono almeno due obiezioni di fondo:
1. Peccato che l’attacco di Pio IX non fosse semplicemente rivolto all’unità nazionale italiana, ma a tutti i principi che essa comportava, cioè uguaglianza, libero pensiero, ecc. che stanno alla base della cultura moderna e dei diritti elementari di cui tutti noi godiamo come cittadini! (che nella versione italiana erano per giunta piuttosto addomesticati). Allo stesso modo egli si opponeva alla laicità dello stato ed alla sua indifferenza di fronte a tutte le religioni. Quindi non si trattava di una sterile diatriba sul potere temporale, ma dello scontro di due diverse concezioni del mondo: conservazione contro modernità; questo era il contenuto della cosiddetta “polemica”.
2. Quello che più importa è che è proprio questo contenuto che sta a cuore alla CC di oggi; non è affatto a prescindere da esso che un personaggio come Pio IX, così famigerato da divenire proverbiale, sia proposto come modello di vita. Quindi fin da adesso è da sottolineare che si tratta di un atto fortemente conservatore. Questo è d’altra parte perfettamente coerente con la canonizzazione di Pio X, l’altro venerabile pontefice, au­tore della celebre Pascendi, nella quale si condanna il Modernismo, movimento che cercava di far assimilare alla CC le conquiste basilari della modernità, senza per questo sconvolgerne la struttura, ma già era troppo. Le correnti conservatrici radicali del Vaticano, che allora ebbero la meglio, sembrano avere sempre saldamente in mano le redini teologiche.

3. Poiché la strategia ufficiale della CC è la celebrazione sfarzosa della forma e l’occultamento del contenuto – politica affermatasi in grande stile con la Controriforma ed il Concilio di Trento: al popolo le storielle pietose (nel senso della Pietas) sulla Madonna ed i santi, la teologia invece solo per i prelati, ossia la divisione delle due religioni, popolare ed intellettuale [cfr. Giovanni Miccoli, Crisi e restaurazione cattolica nel cinquecento, in Storia d’Italia Einaudi. Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVII, Torino 1974, pp.975ss] – una prima reazione sensata mi pare tirare fuori i contenuti. Essi sono così nefasti che, per riaffermarli, si cercano dei sotterfugi: la dichiarazione aperta di determinati concetti potrebbe risvegliare la memoria delle lotte storiche contro di essi, la coscienza, per quanto sbiadita, di conquiste democratiche ottenute nel corso di secoli di contrapposizione, prima dalle forze liberali e poi da quelle comuniste.
Non vorrei sembrare sorpreso dalla “scoperta” che la CC è conservatrice, questo lo sa chiunque abbia studiato un po’ di storia. La mia reazione nasce dall’immagine che di essa viene proposta oggi dai più importanti mezzi di comunicazione e dal modo in cui viene spesso passivamente accettata. Non vorrei neppure mortificare chi ha un sincero sentimento religioso e sente in sé un anelito che va al di là della propria finitezza individuale, ma semplicemente sottolineare come questo non significhi essere cattolici. In Italia avere una propria religiosità ed essere cattolici sembrano essere concetti identici, ma non è così. [Si può essere credenti, progressisti e democratici senza essere cattolici]. La CC è infatti tutt’altro che progressiva e democratica, se non a chiacchiere, e l’inizio del processo di beatificazione di Pio IX ne è una delle tante dimostrazioni.
Non voglio dilungarmi oltre su questi preamboli e passare all’analisi della più celebre opera del beato pontefice, l’enciclica Quanta cura, accompagnata dal celeberrimo Sillabo, in cui vengono elencati gli errori della civiltà moderna. Questo pamphlet segna una presa di posizione decisiva ed ha avuto seguito con Leone XIII, Pio X, XI e XII; esso viene riaffermato oggi da Giovanni Paolo II, sancendo una forte continuità storica.

4. Pio IX fece nell’ottocento quanto Pio XI e Pio XII hanno fatto nel novecento. Gli ultimi due si sono divisi nel tempo l’elaborazione teorica e la realizzazione pratica dell’anticomunismo; se l’accordo con il fascismo mise Pio XI relativamente al sicuro da rischi politici immediati, più turbolenta fu invece la situazione per Pio XII nel dopoguerra; anche lui ad accordi rassicuranti se la cavò comunque bene: Dc + Usa. Del resto Pacelli, papa dal ’39, fu segretario di stato pontificio a partire dal 1930 e sembra che abbia influito non poco sulle posizioni del suo predecessore al soglio. Pio IX si trovò invece da solo a fronteggiare l’attacco più concreto e massiccio del movimento liberale. Non se ne ripercorre qui la storia in quanto è nota ai più e comunque esposta in qualsiasi manuale.
Nell’enciclica Quanta cura (1864) e nel Sillabo ad essa allegato, non si combatte semplicemente lo stato moderno, ma la modernità come tale. In primo luogo si negano i principi democratici fondamentali. Pio IX cita il suo predecessore Gregorio XVI che, essendo della stessa pasta, considerava una “follia” quanto segue: “libertà di coscienza e d’iniziativa è diritto personale di ogni uomo che deve essere proclamato e asserito in ogni società costituita secondo diritto; e che il diritto ad una libertà assoluta risiede nel cittadino che non deve essere limitato da alcuna autorità, né ecclesiastica né civile, in quanto essi debbono essere in grado di manifestare e dichiarare apertamente e pubblicamente qualsiasi loro opinione, attraverso la parola, la stampa o in qualsiasi altro modo” [il testo riprodotto è tradotto dalla versione inglese, è quindi possibile che ci siano piccole difformità rispetto alla versione italiana in commercio. Lo stesso vale per le citazioni da encicliche che seguono].  Secondo Pio IX questa non è libertà di pensiero, ma “libertà di perdizione”.
La critica dell’individualismo, che in parte sembra coincidere con quella fatta dai comunisti, non deve ingannare: infatti lo si attacca da destra. Questo lo si vede chiaramente nel Sillabo dove i primi articoli sono dedicati alla sconfessione della capacità della ragione di comprendere la realtà, i dogmi della CC, ecc. (artt. 3-5). Solo attraverso Dio l’uomo conosce veramente, ma per i cattolici attraverso Dio significa attraverso il papa. Il pensiero deve così essere asservito alla verità rivelata e non sottoporre a prova razionale la fede (art. 10). La terza sezione, alla bella faccia dell’ecumenismo, è dedicata a sostenere che solo la fede cattolica porta alla salvezza, le altre no, con esplicita presa di posizione contro i protestanti (art. 18). Si passa quindi a dichiarare il necessario asservimento della stato di diritto alla CC (artt. 20 e segg.). Segue quindi un argomento molto caro alla CC di oggi: il controllo dell’educazione (artt. 45 e segg.). Artt. 67 e segg. sono dedicati alla nullità del matrimonio civile di fronte a quello religioso secondo le sanzioni del Concilio di Trento.
Gli ultimi 4 principi da censurare li cito direttamente per rendere il sapore e lo stile del nostro; sono diretti contro il riconoscimento legale della libertà di culto [si ricorda che il sillabo non sviluppa delle critiche, ma semplicemente elenca e censura 80 concetti, presentati con le parole dei loro assertori]: “77. Al giorno d’oggi non c’è più motivo per cui la religione cattolica debba essere ritenuta come la sola religione di stato, con l’esclusione di tutte le altre forme di culto … 78. Dunque è stato saggiamente deciso dalla legge, in alcuni paesi cattolici, che persone che vengano a risiedervi, possano godere della pratica pubblica del loro culto particolare … 79. Inoltre è falso che la libertà civile di ogni forma di culto ed il pieno potere dato a tutti di manifestare apertamente e pubblicamente qualsiasi opinione e pensiero portino più facilmente alla corruzione morale del popolo e a propagare la peste dell’indifferentismo … 80. Il pontefice romano può e deve riconciliarsi e venire a patti con progresso, liberalismo e civiltà moderna”
Ricapitolando Pio IX nega la libertà di pensiero, di culto, di azione, la sovranità popolare (in quanto lo stato, che la incarna, deve rispondere alla chiesa, che ne è indipendente), sudditanza del pensiero e della scienza alla religione, ecc. Mi sembra che basti per delineare il profilo del nostro “aspirante-beato” papa. Chi è cattolico deve, oggi come allora, condividere questi santi principi, ritenersi incapace di conoscere la verità senza la mediazione di un sacerdote ed ubbidire supinamente agli ordini divini manifestati tramite il Vaticano.

5. Spesso si risponde che questa è la Chiesa di allora, ma che oggi è tutto diverso, è cambiata anche la situazione sociale. Valutiamo però queste considerazioni alla luce dei dettami del Catechismo.
L’art. 872 recita: “Fra tutti i fedeli in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano ad edificare il Corpo di Cristo secondo la condizione e i compiti di ciascuno” [corsivo mio]. Vediamo anche il seguente: “Le differenze stesse che il Signore ha voluto stabilire fra le membra del suo Corpo sono in funzione della sua unità e della sua missione…”. Quindi, se da una parte tutti sono figli di Dio e quindi uguali, dall’altra ciascuno ha una propria qualità specifica, anch’essa voluta da Dio, che lo colloca in una determinata funzione.
Così l’art. 1936 afferma: “Si notano differenze legate all’età, alle capacità fisiche, alle attitudini intellettuali o morali, dagli scambi di cui ciascuno ha potuto beneficiare, alla distribuzione delle ricchezze. I talenti “non sono distribuiti in misura eguale””. Qui differenze fisiche e sociali sono poste sullo stesso piano, tutte collocate nel progetto divino complessivo, come si deduce anche dall’art. 1937: “Tali differenze [senza distinzione fra fisiche e sociali - ndr] rientrano nel piano di Dio … Le differenze incoraggiano e spesso obbligano le persone alla magnanimità, alla benevolenza, alla condivisione…”. Così la diseguaglianza sociale, alla stessa stregua di quella fisica, è volontà di Dio. L’art. 1938 parla poi di “diseguaglianze inique”, che rappresentano il superamento del confine delle diseguaglianze eque.
Il ragionamento sopra esposto implica che per natura (volontà di Dio) non solo gli uomini siano effettivamente tutti diversi biologicamente, ma che questa differenza stia sullo stesso piano della strutturazione sociale, culturale, caratteriale, addirittura del possesso della ricchezza. Così l’uguaglianza degli individui, affermata in virtù della partecipazione al piano complessivo di Dio (tutti sono figli di Dio), non esclude che essi siano classificati in una scala gerarchica a seconda della loro natura particolare. La loro dimensione sociale, alla stessa stregua del colore della loro pelle, è divinamente posta: ci sono “naturalmente” dei ruoli sociali più o meno importanti ed altrettanto “naturalmente” persone più o meno adatte a realizzarli; non si distingue cioè da un punto di vista concettuale ciò che è naturale da ciò che è sociale [questo lo si vede anche in Dante, Paradiso, VIII, vv. 115-126 e 138-148, ma anche XXVI, vv. 64-66; ma per la fonte filosofica cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I. q. VI, 4 e II. II, q. XXVI]. Esiste perciò una gerarchia di funzioni alla cima delle quali sta evidentemente quella ecclesiastica (la più vicina a Dio) ed al livello più basso la meno spirituale (la materiale) [qui si avvertono delle eco aristoteliche, con gli schiavi alla fine della “catena”].

6. Sappiamo adesso che esistono delle differenze “sociali” che sono “naturali”, quindi è insensato lottare per la loro rimozione; più logica è la cooperazione delle forze preposte. Ecco, in base ai dettami di oggi, il nocciolo della ricetta di Leone XIII nella sua Rerum Novarum [cfr. la Contraddizione, no.74]: cooperazione fra capitalisti ed operai per risolvere la questione sociale; poi ovviamente solidarietà: il ricco deve aiutare il povero, ecc.
A chi nella gerarchia delle eque disuguaglianze capita di trovarsi in una funzione bassina, ciò non succede perché lavora per una paga da fame, perché non ha alcun diritto riconosciuto, ecc. ma perché è un povero diavolo di natura. Se però è timorato di Dio stare in basso è la sua gioia ed allora negargli la possibilità di assaporarla per sempre sarebbe un controsenso. Per chi riesce a non deviare dalla propria natura e resta un povero diavolo per tutta la vita (tutti portano la loro croce) c’è la beatitudine celeste. La piccola borghesia, che per natura di teologia non ne capisce molto (salvo non abbia una dotta guida spirituale), lenisce i dolori del­l’ignoranza con lo schermo ultrapiatto, la fiction-tv, la vacanze al mare. Di tale privazione, in nulla riscattata dagli imi beni materiali, non si lamenta (tutti portano la loro croce) e questo va a loro merito – bravi, se non le fate grosse alle elezioni il paradiso aspetta anche voi.
I nostri poveri finanzieri, gravati dal cascame mondano della speculazione che sono costretti per natura a sopportare (tutti portano la loro croce), con la loro certosina dedizione alla valorizzazione del capitale riescono a superare le congiunture e gli scioperi; è dura ma per chi ce la fa… paradiso! I sacerdoti, stakhanovisti della preghiera, per natura sono preposti alla conoscenza ed alla diffusione della verità rivelata; essi svolgono questa disagiata funzione di guida senza lamentarsi (tutti portano la loro croce). Spiegare a tutti che nelle cose non ci si capisce niente se non le insegnano loro, far capire che avevano ragione Mussolini, Pinochet e altri cuori della stessa nobiltà, convincere tutti a votare per i santi partiti delle fede è una funzione che, se adempiuta adeguatamente, le porte del paradiso le spalanca e a volte ci scappa il santo.
Al di là del facile sarcasmo si vede che l’opposizione alla libertà moderna ed alla giustizia sociale muove da basi filosofiche ben precise.
Per tornare al nostro Pio IX c’è da dire che ha fatto scuola: come egli sconfessa il liberalismo, così Leone XIII si prende cura in un’altra enciclica della “piaga” del socialismo [Quod apostolici muneris, 1878] e si fa promotore della soluzione conciliatrice sopra menzionata, Pio X sbaraglia il modernismo [Pascendi, 1907], ma più di tutti Pio XI si confronta con la degenerazione più devastante dei nostri tempi: il comunismo ateo e materialista [Divini Redemptoris, 1937]. La sua formulazione costituisce la confutazione ufficiale del materialismo storico da parte della CC, usata poi da Pio XII nella sua vigorosa pratica anticomunista e rivendicata ancora oggi da Giovanni Paolo II nell’ultima enciclica Fides et Ratio (1998) § 54 come la summa sapientiæ a proposito di questo argomento [la funzione di questo § 54 è di rimandare a tutti i documenti precedenti su temi filosofici, sempre nel segno della continuità e della condanna].

7. Si vedrà che anche Pio XI non farà altro che usare la dottrina riproposta nel catechismo odierno alla situazione sociale a lui contemporanea, collegandosi propriamente allo stesso Pio IX ed a Leone XIII. Che oggi si rimandi a quel testo per una confutazione critica del materialismo è di nuovo indicativo del fatto che una certa tradizione non è affatto rinnegata, ma anzi riaffermata con tutta la forza dottrinale e pratica di cui la CC è capace.
La prima parte della Divini Redemptoris è dedicata alla confutazione del materialismo storico e su di essa il discorso non può essere approfondito perché prenderebbe uno spazio eccessivo; si può brevemente affermare che essa prescinde dal materialismo storico stesso, in quanto vi si adotta il seguente modo di procedere: si crea un oggetto da criticare, lo si chiama materialismo storico, poi si trovano tutti i difetti che vi si sono inseriti ad arte. Si pensi che, poiché ad oggi questo testo costituisce sempre la confutazione ufficiale della CC, questa non conosce in niente, se non nelle formulazioni della propaganda anticomunista, i principi e la sostanza di questa dottrina.
Nella seconda parte dell’enciclica Pio XI fa una cosa che i suoi colleghi molto raramente fanno. In genere, quando si chiede quale alternativa proporre al comunismo si risponde con formule piuttosto vaghe. È noto infatti che anche il capitalismo e la società liberale che lo promuove sono imperfetti (vedi Pio IX, critica da destra); ma allora che cosa? La solidarietà, la misericordia, la collaborazione reciproca. Queste formulazioni astratte in realtà non hanno contenuto, perché si adattano ad una miriade di configurazioni possibili, le più diverse fra loro. Proprio qui sta la superiorità di Pio XI: egli dà un’indicazione estremamente precisa, ma procediamo con ordine.
Per prima cosa, senza false ipocrisie dice testualmente nel § 33: “Non è vero che tutti hanno uguali diritti nella società civile. Non è vero che non esista al suo interno una gerarchia sociale legittima”, si rimanda quindi al prode Leone XIII. Grazie al Catechismo sappiamo il perché di tutto ciò. Ma perché rivendicare la diseguaglianza dalla propria? Perché i comunisti, perniciosamente, rivendicano l’uguaglianza dalla loro: “Nelle relazioni umane con altri individui, poi, i comunisti accettano il principio della assoluta uguaglianza, rigettando ogni gerarchia e autorità costituita divinamente [non sia mai!], inclusa l’autorità dei genitori [sig!]”. Così, poiché la disuguaglianza è divina e questi cattivi dei comunisti vogliono eliminarla, Pio XI accetta anche che lo stato (fascista e filocattolico adesso) faccia rispettare l’ordine (§ 33).
Ma abbiamo promesso delle indicazioni precise da parte di Pio XI che fanno di lui un papa che ha almeno il coraggio delle proprie affermazioni: non comunismo, non capitalismo, ma che cosa allora può garantire la prospera collaborazione fra gli esecutori delle diverse funzioni sociali/naturali? Vediamo il § 32: “Noi abbiamo indicato come una solida prosperità possa essere restaurata in conformità ai veri principi di un sistema sanamente corporativo [corsivo mio], che rispetti la struttura gerarchica propria della società; e come tutti i gruppi occupazionali debbano essere fusi in un’unità armoniosa ispirata dal principio del bene comune. E la funzione genuina e principale dell’autorità civile consiste precisamente nella efficace promozione di questa armonia e nella coordinazione di tutte le forze sociali”, a mezzo del santo manganello verrebbe da aggiungere.
Ma se qualcuno ha ancora dei dubbi che si tratti del corporativismo fascista non resta che citare il § 54: “Se, perciò, consideriamo l’intera struttura economica della società, come abbiamo evidenziato nella nostra enciclica Quadragesimo anno, il regno della mutua collaborazione fra giustizia e carità nelle relazioni socioeconomiche può essere raggiunto solo grazie ad un corpo di organizzazioni professionali e interprofessionali, fondate su una solida base cristiana, che lavorano insieme per attuare, sotto forme adattate a differenti luoghi e circostanze, ciò che è stato chiamato corporazione” [si ricordi che l’enciclica è del 1937]. Le differenze sociali sono volontà di Dio e vanno rispettate; se non le si vuole le si fanno rispettare per forza grazie all’opera misericordiosa dello stato, corporativo, fascista. Non a caso Mussolini era stato detto “uomo della Provvidenza”.
Il nostro, meritorio per tanto franchezza, non ci risparmia purtroppo il predicozzo sui poveri di spirito: ricchezza, miseria… non contano niente, chi è povero ma ricco dentro è più vicino a Dio di chi è ricco ma povero dentro, ecc.; è la povertà di spirito che apre il regno dei cieli. Non voglio asserire che non sia vero, insolito è che sia sempre il ricco (o i lacchè da lui stipendiati) a fare discorsi del genere, ma questa è polemica spicciola.

8. Il carattere antipopolare, antidemocratico, intollerante della CC viene solo rinfrescato da questi momenti della sua vita intellettuale recente: non c’è niente di nuovo sotto il sole. In apertura però ci si chiedeva che significato avesse l’inizio del processo di beatificazione di Pio IX; la risposta è continuità storica con la tradizione, rinnovamento solo a parole e coerenza nei fatti. Ripensando a quanto esposto sopra, il controllo della scuola, il magistero, la lotta contro il divorzio sono rivendicazioni che in Pio IX hanno un degno padre. Ma si consideri anche la critica alla società borghese atea e miscredente, al laicismo, oppure alla difesa della condizione privilegiata di cui gode legalmente il cattolicesimo nel nostro paese. Dove conduce però questa forte continuità ideologica, quali scopi si pone la gerarchia ecclesiastica?
Anche se Pio XI, ispirato dal futuro Pio XII, parlava del corporativismo fascista come della migliore soluzione alla questione sociale, non è forse ipotizzabile che attualmente la CC si auspichi un esito analogo (nella forma esteriore almeno). Tuttavia la nuova fase corporativa che l’economia italiana sta attraversando [e che questa rivista non smette mai di sottolineare] può forse avere dei legami indiretti e riproporre in forma diversa uno stesso contenuto. La cosiddetta “concertazione” risponde ai canoni tanto lodati dalla CC; il capitale così da una parte plaude a tanta moralità e dall’altra ne agevola la ricezione, amplificandone mediaticamente l’effetto. La tesi che qui si delinea allora, e che dovrebbe essere ulteriormente approfondita, è che il cattolicesimo può costituire una delle basi ideologiche della politica neocorporativa del capitale.
Tornano bene oggi in anno giubilare le parole che Dante mette in bocca a San Pietro a proposito di Bonifacio VIII, istitutore del Giubileo: “Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio, che vaca / nella presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimitero mio cloaca / del sangue e della puzza; onde’l perverso / che cadde di qua su, là più si placa” [Paradiso, c. XXVII, vv. 22-27]. I nostri polli sono in realtà galline vecchie, ma il brodo ce lo vogliono mandare di traverso.

Friday 22 January 2016

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DI MARX. INTERVISTA A ROBERTO FINESCHI (PARTE II)


LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DI MARX. INTERVISTA A ROBERTO FINESCHI (PARTE II)
Gennaio 15, 2016
di Ascanio Bernardeschi

Fonte: http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-cassetta-degli-attrezzi-di-marx-intervista-a-roberto-fineschi-parte-ii.html




Mondializzazione, finanziarizzazione, nuova composizione di classe. Che uso fare del lascito marxiano per rilanciare una prospettiva comunista?

di Ascanio Bernardeschi

segue da parte I

Nella precedente parte abbiamo spiegato cos'è la MEGA2 e perché è importante. Vogliamo ora ragionare con Fineschi sull'attualità di Marx e sull'approfondimento teorico necessario per rilanciare una prospettiva comunista.

Marx inizia il Capitale con l'analisi della merce come “cellula elementare” del modo di produzione capitalistico e, pian piano, da questo elevato livello di astrazione, introducendo ulteriori variabili, svolge la sua teoria in maniera sempre meno astratta. In diversi tuoi lavori parli diffusamente di 4 livelli di astrazione. Che poi si riferiscono solo al contenuto dei tre libri del Capitale noti, mentre il piano originario dell'opera, che Marx non ha avuto il tempo di sviluppare, era più vasto (comprendeva per esempio lo Stato e il Mercato mondiale). Immagino che per giungere a illustrare tali aspetti, e quindi per avvicinarsi ulteriormente alla complessità della realtà, fosse necessario scendere a livelli ancora meno astratti, e avvicinarsi così anche a una teoria meglio spendibile nella lotta politica. Condividi questa opinione e in che misura, secondo te, il marxismo è stato all'altezza di questo compito?

La domanda è molto complessa. Si può partire dai problemi storici della ricezione del Capitale. Soprattutto nella prospettiva politica, un punto chiave era la teoria dello sfruttamento. Dimostrando che nella teoria del capitale ci sono problemi strutturali insuperabili si distruggeva anche la teoria dello sfruttamento.

Nel dibattito tradizionale, a questo proposito, i due punti più caldi sono stati la trasformazione dei valori in prezzi di produzione, soprattutto, e la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. L'idea era che la teoria del valore, per come era formulata nel primo libro, presentasse una contraddizione insanabile con la teoria dei prezzi di produzione del terzo libro. Con ciò tutta la teoria non funzionerebbe e andrebbe buttata a mare, compresa la teoria dello sfruttamento.

Anche il dibattito successivo e il contributo di coloro che offrivano una soluzione sulla base della teoria sraffiana [1], i quali pensavano di dimostrare che esiste lo sfruttamento a prescindere dalla marxiana teoria del valore, centrando il grosso della discussione sul presupposto della presunta contraddizione, ha fatto perdere molti aspetti della teoria del capitale.

Credo che, per le modalità con cui la disputa fu impostata ab origine, il dibattito successivo sia stato in fondo coerente e corretto. Secondo me la Mega2 permette non tanto di rispondere diversamente, ma di comprendere che la questione era posta male. Il problema di Marx non è quello supposto in questo dibattito. Quindi è mal formulato il punto di partenza. Non sto qui a scendere nei dettagli ma lo snodo consiste nel comprendere che quella di Marx non è una teoria del cosiddetto “valore-lavoro”, espressione mai usata da Marx, ma di merce e denaro; il problema di “sostanza”, “grandezza” e “forma” di valore si pone all'interno di questo orizzonte teorico.

Nel terzo libro – in realtà un manoscritto in larga parte incompiuto, un work in progress – si affrontano questioni dove Marx stesso mostra la complessità della trattazione dei problemi strutturali della sua teoria nell'articolazione dei vari livelli di astrazione. A mio modo di vedere, nella distinzione di questi livelli, esiste una impostazione e una soluzione alternativa alla trasformazione che non presenta contraddizione tra valori e prezzi, basata fondamentalmente sulla nuova categoria dei “prezzi di mercato”.Fra l'altro questa soluzione permette di considerare questo problema come un capitolo di una teoria più complessa che poi va avanti.

Nell'ultima sezione del terzo libro, “Credito e capitale fittizio”, Marx si pone il difficile compito di pensare la superficie del movimento nel suo complesso (forme del credito, del capitale fittizio, del capitale azionario, dell'interesse e della dinamica del tasso di interesse) che sono terreno fertile per scendere a livelli di analisi più concreti.

Nell'edizione di Engels – questo è un altro grande limite del suo lavoro – la parte finale non è una sezione. “Credito e capitale fittizio” viene presentato come un capitolo, mentre in realtà è il titolo di un'intera sezione, nel manoscritto molto complessa, in cui Marx sembra delineare la dinamica del rapporto tra accumulazione reale e accumulazione fittizia e come le due determinino problemi complessi – quali la variazione del tasso di interesse e la crisi – che oggi considereremmo “macroeconomici”. In più, rispetto alle teorie ortodosse, offre una teoria del ciclo produttivo, in cui il movimento fenomenico non viene analizzato semplicemente in base all'analisi empirico-fenomenica di che cosa cambia a uno stato dato se si modifica una delle variabili.

L'analisi del cambiamento si inquadra in una processualità reale che ha una tendenza determinata dal processo obiettivo di produzione e riproduzione del capitale. Per esprimerla in termini più semplici, se riusciamo, grazie a questa ricostruzione attraverso i manoscritti, ad avere una teoria del capitale articolata in livelli di astrazione, possiamo trovare una chiave per spiegare fenomeni attuali che hanno la loro causa in tendenze di fondo che però alla superficie non appaiono come tali.

Questo è il punto: nella teoria di Marx il valore non appare mai alla superficie, ma scava sotto e si manifesta in moltissime forme diverse che sono in larga parte inaccessibili all'economia ortodossa in quanto quest'ultima rifiuta completamente questa dimensione. Essa, avrebbe detto Marx, si aggira nel fenomeno senza cogliere i nessi essenziali e scambia la descrizione del movimento apparente per la sua essenza.

A mio modo di vedere, attraverso la ripresa della teoria marxiana e lo studio dei suoi diversi livelli di astrazione, si può fare molto. Ma ancora prima di scendere al livello dello Stato e del Mercato mondiale, è la stessa teoria del capitale che necessita di essere ripensata. Non abbandonata o trasformata, perché secondo me la ricostruzione che si può fare attraverso i manoscritti mostra che la sostanza c'è; ma è una teoria è incompiuta e va quindi sviluppata, completata, integrata anche alla luce dei nuovi fenomeni che sono emersi nel secolo successivo alla vita di Marx che egli non aveva potuto osservare. Però questo è un altro segno dell'estrema forza di questa teoria perché essa è stata scritta quando il modo di produzione capitalistico era tutt'altro che ben sviluppato: esisteva solo in alcune parti del mondo, la parte finanziaria non aveva ancora assunto la dimensione gigantesca odierna. Ma ciò nonostante Marx prevede e spiega la sostanza di questi fenomeni.

Sei venuto proprio all'altra domanda che volevo farti, alla quale in parte hai già risposto. Il capitalismo odierno si è trasformato profondamente rispetto a quello osservato da Marx. Siamo di fronte a una fase transnazionale dell'imperialismo, al dominio dei poteri finanziari, alla frammentazione del mondo del lavoro, non concentrato, nella stessa misura di diversi decenni fa, in grosse strutture produttive. Perché serve ancora Marx per capirne la struttura e le dinamiche? In che misura ci può essere di aiuto per poter costruire una prospettiva comunista teoricamente ben fondata?

Anche a questo proposito, se si distinguono i diversi livelli di astrazione possiamo avere, non certo le risposte concrete a queste domande, ma una buona partenza per poterci lavorare.

Un'interpretazione non adeguata nella tradizione marxista, che si ripercuote anche nei vari “post” che abbiamo adesso, è l'idea che l'unico soggetto antagonista sia l'operaio della fabbrica. Questo è giusto in parte, ma non esaurisce la potenzialità della teoria delle classi di Marx. In particolare mi riferisco alla lettura dei capitoli su cooperazione, manifattura e grande industria che erano evidentemente una descrizione dei rapporti in essere all'epoca, una sorta di fenomenologia del processo lavorativo dell'Inghilterra del XIX secolo.

Sembravano descrizioni molto promettenti perché pareva che le tendenze di fondo si muovessero in quella direzione. Il limite è confondere queste “figure” storiche dell'organizzazione del lavoro con le “forme” che il processo lavorativo assume, non nel capitalismo, ma nel modo di produzione capitalistico. Perché se dico capitalismo, intendo una forma storico concreta specifica di questo, e se dico manifattura e grande industria, ci metto un'etichetta ancora più specifica. Il punto che sollevo è che Marx non sta solo parlando di queste figure storiche ma in realtà sta sviluppando una teoria delle forme del processo lavorativo all'interno del modo di produzione capitalistico, delle modalità attraverso le quali si realizza il processo lavorativo.

Tali modalità non sono necessariamente la manifattura o la grande industria, ma sono determinazioni che sono esemplificate da queste forme, ma non solo da queste. Mi riferisco in particolare alla dimensione cooperativa del lavoro, alla dimensione parziale del soggetto che lavora e realizza solo una parte dell'opera, alla dimensione subordinata del lavoratore e addirittura alla sua estromissione, all'automatizzazione completa, fino al ruolo di semplice supervisore del lavoratore.

Se guardiamo a cooperazione, manifattura e grande industria come a “figure” storiche in cui quelle “forme” specifiche del produrre in modo capitalistico sono apparse, abbiamo che la perdita di importanza di alcune figure non fa scomparire le forme come tali.

Nell'organizzazione contemporanea del processo lavorativo non abbiamo solo queste figure – che tuttavia, a dispetto delle varie “scomparse” esistono ancora – ma abbiamo altre organizzazioni del lavoro per cui quelle forme, la dimensione della parzializzazione, della subordinazione e del carattere cooperativo, che avviene magari attraverso il computer fra individui che lavorano in tutte le parti del mondo, sono la struttura del modo si produrre. Inoltre esse sono salariate allo stesso modo di prima, cioè subordinate a un processo di valorizzazione del capitale.

Il risultato complessivo della loro attività non è da loro posta. Essi sono sussunti da questa. La realizzano per il capitale, ricevono un salario che può essere in varie forme, quale per esempio il corrispettivo della partita Iva.

Identificare il lavoro salariato guardando solamente alla forma contrattuale, giuridica che assume, non è il punto. Posso avere la partita Iva e lavorare come finto salariato. In questo senso i potenziali soggetti antagonisti vanno moltiplicandosi perché tutti gli individui che si trovano a lavorare in varie forme in processi eterodiretti dal capitale per il quale lavorano in forma diretta o indiretta di salario, si trovano completamente sussunti a queste modalità. Il loro modo di lavorare è sostanzialmente cooperativo, parziale, subordinato, di supervisione etc.

Questo permette di superare vari “post” come il post-operaismo, perché se limito il soggetto antagonista all'operaio della fabbrica, è una cosa, se invece ho la fabbrica come una figura storica legittima, mantengo tutte e due le parti: una spiegazione e una legittimazione del periodo in cui l'operaio era effettivamente il soggetto storico privilegiato; ma allo stesso tempo ho una teoria che funziona anche in assenza di questa figura.

Uno degli obiettivi della lotta politica è trovare il modo di unire queste forze che adesso non sono più fisicamente nello stesso posto, non si vedono, non si parlano, sono sparse in tutto il mondo, magari parlano lingue diverse, apparentemente appartengono a gruppi sociali diversi. Metterli in dialogo è molto più complesso ma è uno degli obiettivi. Occorre sviluppare forme di lotta internazionali in quanto la sfida del capitale è a livello internazionale.

Parlavi anche della globalizzazione. Anche questo è un punto interessante. Perché Marx è il primo teorico della globalizzazione, la prevede come esito di lungo termine del modo di produzione capitalistico già nella seconda metà dell' '800, quando appena si adombrava. La situazione attuale non è contro il Capitale di Marx ma ne è chiaramente la verifica, l'evidenza che egli aveva ragione. Ma vale anche per la finanziarizzazione. Non a caso l'ultima parte del Capitale si intitola “Credito e capitale fittizio”, perché Marx, grazie alla sua teoria, aveva ben presente dove si andava a parare.

Per concludere, mi sento di poter dire che la teoria di Marx, se adeguatamente intesa, continua ad essere l'analisi più corretta ed efficacie delle dinamiche di fondo, epocali, del modo di produzione capitalistico. Questa teoria è, però, da un lato incompleta, dall'altro molto astratta, ovvero identifica le tendenze e le dinamiche di lungo periodo. Riuscire a riprendere il filo interrotto alla luce degli sviluppi teorici e storici a lui successivi e scendere ad un livello di astrazione in cui tale teoria diventi “applicabile”: queste sono le sfide teoriche e politiche che ci stanno di fronte.



Note

[1] Il testo a cui si rifanno tutti questi numerosi contributi è P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa a una critica della teoria economica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1960 [nota dell'intervistatore].

Sunday 10 January 2016

LA CASSETTA DEGLI ARNESI DI MARX. INTERVISTA A ROBERTO FINESCHI (PARTE I)

LA CASSETTA DEGLI ARNESI DI MARX. INTERVISTA A ROBERTO FINESCHI (PARTE I)
Gennaio 6, 2016
di Ascanio Bernardeschi

Fonte: http://www.lacittafutura.it/dibattito/la-cassetta-degli-arnesi-di-marx-in-parte-ancora-sconosciuta-intervista-a-roberto-fineschi-parte-i.html

La nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels, la Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2) ci riserva molte sorprese. Non cambiano solo le interpretazioni dei testi, ma i testi stessi. Che uso farne per rilanciare una prospettiva comunista su basi teoriche solide?


di Ascanio Bernardeschi


La Mega2
Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità. Lo abbiamo intervistato per i lettori de La Città Futura.


Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della MEGA2 e perché sono importanti?
Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del 1857-58, i cosiddettiGrundrisse; la terza sezione è dedicata al carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.


È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni. Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44, nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria. Allo stesso modo l'Ideologia tedesca non è una “opera”; soprattutto il primo capitolo su Feuerbach è un insieme di manoscritti o articoli incollati e messi lì in maniera in parte arbitraria dai curatori (include perfino un testo di Hess!).


A proposito del capolavoro Marxiano, Il Capitale, cosa c'è di nuovo o si annuncia nei lavori della Mega2?


Le cose si fanno ancora più complesse per l'opera principale della maturità di Marx. Il primo libro venne direttamente pubblicato da Marx in varie versioni, due tedesche e una francese, di cui nessuna soddisfò pienamente l'autore, i cui suggerimenti editoriali furono in parte disattesi da Engels nella terza e quarta edizione tedesca. Quindi, paradossalmente, l'unico testo pubblicato da Marx esiste in versioni in cui non coincidono neppure gli indici.


Il secondo e il terzo libro, che Marx non ha mai pubblicato perché era ben lungi dall'avere delle versioni definitive, sono la novità più rilevante. Vennero invece pubblicati da Engels, il quale fece certamente un lavoro decoroso dovendo affrontare l'improba missione di pubblicare come opera finita un'insieme di manoscritti e appunti ben lontani dalla compiutezza. Però dovette finirli lui, selezionando le parti da mettere, organizzandole, talvolta integrandole. Inevitabilmente non poteva non alterare il testo. La Mega2 è importante perché offre per la prima volta i veri manoscritti marxiani; Marx nelle parole di Marx, come amano dire gli editori, e non la loro rielaborazione engelsiana.


Quali criteri hai seguito nella traduzione e nella cura della pubblicazione italiana del libro I del Capitale?


Le edizioni critiche non si possono fare in traduzione. Però l'idea era di offrire al lettore italiano una versione aggiornata di tutti i testi che adesso sono a disposizione e che Marx aveva redatto pensando esplicitamente alla pubblicazione del Primo libro del Capitale. Sono manoscritti che vanno dal 1863 alla sua morte. Un criterio è stato dunque la completezza.


Tuttavia non si poteva fare come nella Mega che ha pubblicato tutte le versioni in tutte le lingue. Mi è sembrato ragionevole scegliere un'edizione di riferimento e fornire le varianti delle altre. La scelta non è stata scontata perché l'ultima versione pubblicata da Marx, quella francese, che lui stesso considerava migliore della tedesca, in realtà presentava limiti evidenti.


Era migliore perché la parte sull'accumulazione era più avanzata rispetto a quella tedesca (per esempio, nella distinzione tra concentrazione e centralizzazione del capitale e nella più ampia definizione di composizione organica del capitale). D'altro lato non è un'innocua traduzione: mancano dei passi che era difficile tradurre in francese, ma anche la traduzione in sé perde completamente la complessità del linguaggio filosofico delle edizioni tedesche al punto che mi sono accorto che, incredibilmente, nell'edizione francese non c'è il concetto di valorizzazione: questa parola manca del tutto.


Siccome i francesi fino al 1983 non hanno avuto a disposizione altre traduzioni, chi non era in grado di leggere il tedesco non sapeva che nel Capitale c'è la parola valorizzazione! Idem per l'edizione inglese: la parola viene introdotta solo nelle edizioni successive.


La nostra scelta è stata quindi di tradurre la quarta edizione tedesca di Engels e, in un volume di apparato, le varianti presenti nelle altre edizioni, più una nuova traduzione del cosiddetto Sesto capitolo inedito e la prima traduzione al mondo, per quanto ne so, di un manoscritto redazionale che Marx aveva redatto in preparazione della seconda edizione tedesca, assai diversa dalla prima per quanto riguarda la merce e la forma di valore; esso è assai interessante per capire l'edizione a stampa.


Si tratta della famosa appendice sulla forma di valore “per i non dialettici”?


Non esattamente. Si tratta dei materiali preparatori per la nuova edizione del I capitolo della seconda edizione tedesca (1872-3) che andò a sostituire il primo capitolo e l'appendice per i non dialettici presenti nella prima edizione tedesca (1867). Si ha anche la gestazione del paragrafo sul feticismo della merce.


Il problema è che Engels, nel curare la terza edizione tedesca, non ha seguito tutte le indicazioni di Marx - che aveva lasciato un paio di appositi manoscritti. Per esempio, non ha cambiato la struttura dei capitoli che doveva essere quella dell'edizione francese. Da qui è nata tutta una confusione sugli indici delle varie edizioni e traduzioni internazionali, che non coincidono.


Per la traduzione abbiamo cercato di superare alcuni limiti delle precedenti occidentali nella mancata distinzione di alcune categorie che venivano tradotte tutte con lo stesso termine. Per esempio, il termine italiano “rappresentazione” traduceva tre termini tedeschi diversi. “Cosa” traduce due diverse parole tedesche. Altro punto importante,le parole “lavoratore” e “operaio” traducono lo stesso termine tedesco, introducendo una distinzione pesante dal punto di vista dell'interpretazione.


Si tratta di una questione spinosa. I vari traduttori hanno scelto, di volta in volta, quale delle due parole mettere. Noi ci siamo presi la responsabilità di tradurre sempre e coerentemente col termine “lavoratore”, che è più generale, lasciando all'interpretazione del lettore la valutazione se, nei singoli casi, fosse più opportuno l'uno o l'altro termine.


Tutte queste scelte di traduzione sono state esplicitate in un glossario, di modo che il lettore, anche quello dissenziente, abbia la possibilità di capire quale fosse la parola originaria.


(segue sul prossimo numero)


Note
[1] Tra i molti saggi di Roberto Fineschi è di enorme importanza Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, La Città del Sole, Napoli 2001.
[2] K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, Libro I, a cura e con introduzione di Roberto Fineschi, la Città del Sole, Napoli 2001. Sono di notevole interesse l'introduzione e il glossario che permettono di leggere in maniera trasparente le scelte del traduttore.

Intervista con Gabriele Germani e Vadim Bottoni sul mio La logica del capitale.

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